COLLI

Colli di Monte Bove (AQ.), il Secolo Scorso

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Il culto pellegrinale alla Grotta di Sant'Angelo

Domenica 8 Maggio, come ormai da tradizione secolare, i fedeli di Colli di Monte Bove si sono recati in culto pellegrinale alla rotte de Sant'Agno, trasportando la statua di San Michele, sino al cimitero.
Secondo una credenza popolare, se si immerge la testa in una cavità scavata nella roccia del vano superiore dell'eremo, si può udire la eco del sangue che scorre nelle vene dei Santi Martiri; strofinare, invece, la cosiddetta treccia della Madonna allevierebbe i sintomi del mal di testa. In passato, perchè ormai all'interno del luogo di culto non cresce più la vegetazione, alcune foglie di un arbusto erano raccolte per preparare un decotto da far bere alle puerpere che avevano difficoltà nell'allattamento.
Per una bibliografia essenzale sull'eremo di Sant'Angelo di Colli di Monte Bove:
- V. PACE, Bisanzio e l'Occidente, Viella 1996, (consultabile sul Blog);
- E. MINCATI, Eremi e luoghi di culto rupestri d'Abruzzo, Carsa 1996;
- G. MARUCCI, Il viaggio sacro, culti pellegrinali e santuari in Abruzzo, Andromeda 2000.

Vivere La Marsica - GIUGNO 2009


Articolo apparso nel numero di Giugno 2009 del mensile "Vivere La Marsica", sulla tradizionale processione del mese di maggio della statua di San Michele da Colli alla grotta di Sant'Angelo.
Il documento è scaricabile in formato Pdf Quì

L'Opera Pittorica della Grotta di S. Angelo


Grotta di Sant'Angelo
Arco Absidale
Non esistono informazioni documentarie sulla grotta della Madonna di Sant’Angelo di Colli di Monte Bove, né alcun dato informativo preciso emerge dal “monumento” stesso.
Si tratta di una grotta sita a poco meno di mezz’ora di cammino dall’abitato di Colli di Monte Bove, alla quale si lega la devozione degli abitanti dei paesi vicini, in quanto, secondo una tradizione da presumersi secolare, non solo da una sua falda sgorgherebbe il sangue dei martiri, ma essa nasconderebbe in un muro la treccia della Madonna!
La grotta consta di un vano d’accesso, la cui semplice conformazione geologica è stata in parte normalizzata dall’ intervento umano così da renderla simile ad una navata, sulla quale si apre una cappella absidale costruita con pietrame, intonacata ed affrescata sulla facciata esterna, oltre che sulla parete di fondo. Antistante ad essa si colloca un altare in pietra, intonacato. Sulla sinistra della cappella una gradinata in pietrame conduce in alto alla conclusione dell’antro.
La campagna pittorica si estende su quello che potremmo chiamare l’arco absidale e sulla parte di fondo dell’abside. Sull’arco absidale l’immagine centrale rappresenta la Madonna col Bambino, seduta su un trono. Incoronata, offre il seno di destra al Figlio il cui principale interesse sembra consistere nel gesto di benedizione della Santa a lui di fronte. Con la sinistra il Bambino regge il rotolo della legge. Veste e manto della Madonna sono blu e rosso scuro, con un gallone appena sopra l’orlo inferiore a dare un tocco di eleganza all’abbigliamento. Sopra gli spioventi del dossale è scritto in lettere greche e con la consueta abbreviazione, il termine di “Madre di Dio” (Mether Theou). La Santa alla sinistra del gruppo centrale è specularmente accompagnata da altra alla destra, ambedue caratterizzate da una sorta di cuffia sulla testa che lascia comunque abbondante spazio ai capelli raccolti con una certa eleganza sulla nuca. Ambedue le Sante si rivolgono con una mano a palma aperta verso il gruppo divino, mentre con l’altra racchiudono un fiore di giglio, ovvio simbolo del loro stato virginale. Fiancheggiano le due Sante d’un lato San Michele Arcangelo, dall’altro San Biagio. Il primo è facilmente riconoscibile dalla sua impostazione iconografica (oltre alle larghi ali, l’asta che verosimilmente trafiggeva in basso il demonio – dove l’affresco è scomparso); il secondo rappresentato con vesti ed attributi della sua dignità vescovile, è identificato dal titulus latino. Sotto San Biagio si scorge un volatile dal lungo collo e dal piumaggio celeste, su un fondo giallo ocra bordato di celeste. Mancano, o almeno non sono conservate, iscrizioni di committenza o di data.
L’altro affresco è quello sulla parete di fondo: entro un clipeo blu, spicca il busto del Cristo benedicente, purtroppo menomato da una lacuna particolarmente fastidiosa sull’occhio sinistro oltre che su parte del busto. Lo affiancano due figure intere, dunque sottodimensionate rispetto a Cristo, di angeli, ciascuno con un fiore di giglio in mano. Un’ala di ciascuno di loro contorna il clipeo di Cristo, l’altra discende in verticale ad affiancare il lato corto del rettangolo entro cui è racchiusa l’intera composizione. Non resta traccia alcuna di iscrizioni.
L’aver costruito una cappella all’interno della grotta, solo in parte usandone la conformazione geologica, non è un fenomeno unico, anche se è più raro dei casi in cui le grotte vengano direttamente intonacate e affrescate senza essenziali interventi murari. Un caso analogo è in Campania, sulla costiera amalfitana, nel Santuario di Santa Maria di Olearia.
La scelta e la disposizione delle immagini di questo programma pittorico trovano alcune possibilità di riscontri nell’area geografica confinante: fra Lazio, Abruzzo e Roma.
Il tema della Madonna allattante conobbe una larga diffusione soprattutto dal XIII secolo. In Campania e, più in generale, in Italia meridionale lo si trova di frequente lungo il Duecento sia su tavola che ad affresco. Osservando attentamente il dipinto della grotta di Sant’Angelo a Colli di Monte Bove, si può legittimamente ritenersi che, regalità, sacralità e umanità dell’immagine abbiano pienamente soddisfatto le esigenze devozionali del committente e dei fedeli.
I mezzi formali coi quali il programma fu dipinto suggeriscono che ciò sia avvenuto nella seconda metà del Duecento. Ad una tale datazione l’iconografia della Maria lactans è perfettamente consona, anche se non significa l’esclusione di un qualche decennio precedente. Rispetto alle “Madonne” abruzzesi questa è l’unica rinunciare alla pura frontalità dell’ ornato decorativo.
Sul “dossale” gli orientamenti cambiano, tanto che si potrebbe essere addirittura tentati ad ascrivergli una data anteriore. Il pittore è infatti diverso ed i suoi modelli non appaiono per nulla coincidenti con quelli finora indicati, né rivelano modi necessariamente posteriori ai decenni iniziali del ‘200. Tuttavia la pur estrinseca indicazione della medesima bordura decorativa tricoma e la plausibilità di un unico intervento mi fanno propendere per una datazione unitaria delle due parti. Il Cristo ha un tipo fisionomico che mi sembra ascendere ad una “moda” d’immagine che nei modi più simili è rappresentata negli affreschi della cappella di San Gregorio a Subiaco, del 1228, sia che si prenda a confronto la famosa effige di San Francesco sia quella di Ugolino. Lì d’altronte, si ritrova anche la bordura tricoma gradinata ed è almeno suggestivo che si ritrovino anche uccelli simile a quello del pennacchio trapezoidale. Tuttavia le “informazioni” fornite dagli affreschi possono e devono tirare in causa anche altri monumenti. La bordura tricoma la si ritrova tanto nella celebre cripta per Anagni , quanto in Abruzzo a Bominaco; ad Anagni continua l’uso del motivo dei volatili e, infine, viene anche applicata sull’aureola di Cristo una sigla decorativa di imitazione vegetale che è significativa, al di la della specifica similitudine, proprio per la sua scelta: dal momento che l’aureola crucigera prevedeva, di “norma”, la decorazione ad imitazione (più o meno fedele) di pietre preziose incastonate.
La grotta di Sant'Angelo


Apparentemente estranei a questi orientamenti appaiono gli angeli, anche se dovrà sottolinearsi che soltanto quello alla destra ha mantenuto inalterata la sua sostanza pittorica, piuttosto bella per il dosaggio della lumeggiatura e correttezza di disegno: mentre l’altro è diventato piuttosto atono, per tal via venendo “casualmente” (credo) ad assomigliare fisiognomicamente a opere pugliesi del 1200 circa: da San Biagio presso Vito dei Normanni a Poggiardo.
In conclusione, con questi diramati e plurimi rinvii non s’intende naturalmente far convergere l’intera pittura dell’Italia meridionale e romana sulle umili pareti di questa grotta, ma evidenziare la loro generale pertinenza al loro tempo che, fu certamente la seconda metà del secolo XIII, forse il suo ultimo quarto.
Sono affreschi di un linguaggio formale modesto, ma per nulla affatto privi di sensibilità pittorica, corredato dalla conoscenza di modelli e schemi usati lungo il Duecento.

Valentino Pace
Tratto dal volume: “Bisanzio e l’Occidente”
Viella, Roma, 1996
 

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